C’è chi ha scritto che il taiji è “una possibilità cinestetica universale, che può essere riscoperta in ogni momento attraverso la prassi.”* 

Considero il lavoro corporeo del taiji come un lavoro di memoria.

Succede a volta agli allievi di riconoscere un movimento “giusto”; non un movimento “bello” o “armonico”: proprio un movimento “giusto”. E’ una sensazione che genera espressioni di sorpresa, un sorriso che si allarga a poco a poco in un punto esclamativo: Eureka! Adesso ho capito,!l L’ho sentito!

Il movimento è giusto in quanto si svolge secondo sue regole interne, secondo un’architettura nascosta che si svela, si lascia scoprire: è un togliere un velo, sollevare qualcosa che ostacolava lo sguardo.

I tedeschi hanno un nome divertente per questa esperienza. La chiamano “Aha Erlebnis”, l’esperienza dell’ “Ahah!”: come una lampadina che ti si accende nella testa.

Dunque il corpo sembra ricordare, riconoscere qualcosa di familiare, di noto. Ma non è solo un movimento secondo la propria natura, che ci viene incontro. E’ la sensazione includente di essere parte di un’architettura più ampia, perché il movimento non si svolge mai nel vuoto, ma è partecipe dell’aria, della terra, della gravità, con cui entra in una relazione di sostegno. Tutto si tiene. Tutto è al servizio, tutto collabora.

E’ l’azione senza sforzo di cui parlano i classici del taiji: la non-azione, l’assenza di sforzo, il fluire come acqua. (Il wu-wei: 無為).

C’è chi ha immediatamente l’esperienza dell’ahah – o almeno ne sente il profumo – ma di solito ci vuole un po’ di tempo. Del resto, il tempo che ci vuole è proprio quello giusto.
* Douglas Wile, Lost Taiji Classics frome the late CHing Dinasty, 1996, p. xvii. Traduzione mia.